Nathalie Huygens ha cinquant’anni, è belga, madre di due figli, ha chiesto l’eutanasia e la sua richiesta è stata approvata a gennaio 2023 da una commissione formata da due psichiatri e un medico. Nel 2016 la donna è stata selvaggiamente stuprata e da allora non si è più ripresa. Soffre di attacchi di panico, crisi di ansia, ha già tentato il suicidio, dice di non riuscire a svolgere le normali attività quotidiane, a mangiare con la sua famiglia o a dormire con suo marito. «Quattro mesi dopo l’evento, sono stata ricoverata in un reparto psichiatrico. L’inizio di una lunga serie di ricoveri nel corso degli anni, forzati o meno dal consiglio del mio psichiatra”, ha raccontato al media belga 7sur7. «In questi oltre sei anni, a parte quando dormo, non c’è mezz’ora in cui non pensi a quello che mi è successo. Sto già convivendo con i postumi fisici. Non posso più mangiare cibi duri, l’occhio sinistro mi fa sempre male».
Dal 2002 in Belgio è consentita la morte medicalmente assistita quando il paziente è, al momento della richiesta, in grado di esprimere la propria volontà con cognizione di causa e quando viene soddisfatto il requisito della patologia grave e incurabile.
«Aspirante suicida miracolosamente salvato dai carabinieri» oppure «miracolosamente salvato da un passante…». Quante volte abbiamo tirato un sospiro di sollievo leggendo righe come queste tra le pagine di cronaca dei nostri quotidiani! Quante invece abbiamo sofferto perché si è arrivati tardi e “l’insano gesto” è stato portato a termine.
La storia di Nathalie ci fa riflettere e ci porta a delle riflessioni molto profonde.
Quando la depressione e il dolore trovano l’unica via di fuga in un lancio nel vuoto o nell’ingestione di un cocktail di farmaci fai da te, questo provoca sdegno, dibattiti su come si sarebbe potuto evitare.
Si cerca in tutti i modi di trovare una soluzione, di tendere una mano a chi soffre.
Ultimamente però assistiamo sempre più a episodi con epiloghi davvero impensabili fino a poco tempo fa. In quest’epoca schiava dell’autodeterminazione assistiamo a episodi in cui sono proprio alcuni medici ad avallare la morte come unica soluzione, pronti a dare la spinta giù dal ponte a chi chiede il suicidio.
Non giudichiamo Natalie, nemmeno le parole del figlio che afferma di approvare la sua scelta, non ne abbiamo il diritto. Ci poniamo però delle domande. Se ci trovassimo nella sua situazione, tra scegliere un percorso tortuoso, non privo di fatiche, prove, cadute, probabilmente con tante sconfitte da affrontare, e uno più semplice ma definitivo, senza via di ritorno, chi vorremmo trovare ad ascoltare il nostro dolore? Siamo così sicuri che la nostra scelta non sarebbe influenzata dalla nostra fragilità e dal trovarsi di fronte la persona sbagliata? Saremmo in grado di compiere una scelta “davvero” libera?
di: Manuela Miraglia, cooperante Steadfast
© Copyright 2024 Steadfast | Privacy policy