Abbiamo deciso di pubblicare oggi questa testimonianza. Proprio nel giorno che vedrà il Senato della Repubblica Italiana impegnato nel decidere se approvare una legge che apra all’eutanasia nel nostro Paese…
Ecco la testimonianza di una mamma coraggio, Daniela, che nella stessa Londra che ha ucciso Charlie Gard, ha lottato per suo figlio, con un esito tutto da leggere. Come Ismael, oggi Isaiah e molti altri bambini sono in condizioni simili.
Il 26 maggio dell’anno 2000 è arrivato nella mia vita un grande dono.
Dopo una gravidanza trascorsa in modo perfetto, tutti i parametri erano assolutamente perfetti, aspettavo la sua nascita il 26 maggio.
E, come da calcoli, perfettamente in time, il 26 maggio 2000 alle 4:00 del mattino ho rotto le acque.
Ho chiamato un’ambulanza che mi ha portato all’ospedale più vicino.
Vivevo a Londra da molti anni, ma in precedenza in un altro quartiere, per cui avevo scelto l’ospedale dove partorire, il Whittington hospital in zona Highgate.
Avevo fatto il corso per partorire in acqua, con la ginecologa preposta.
Quel mattino mi portarono in un ospedale di Enfield, ma riuscii a farmi trasferire reclamando il fatto di aver stabilito un parto in acqua assistito.
Al mio arrivo al Whittington però le cose non andarono come previsto.
La ginecologa lasciava il turno per via del week end e fui affidata ad altri, a suo dire competenti.
Durante il mattino ebbi dei controlli per la dilatazione a due poco irruenti, dolorosi, con speculum.
Il macchinario per il monitoraggio del feto arricciava la carta ma le nurse dicevano è tutto OK.
Per farla breve alle 19,00 avevo la dilatazione a 8 cm e l’ostetrica di turno disse che di lì ad un’ora avrei partorito.
Inimmaginabile come sono stata trattata, in vasca per ore con fortissime contrazioni, non riuscivo a spingere, senza monitoraggio, nessun cenno di un possibile cesareo nonostante le dimensioni del bambino e le contrazioni che si indebolivano.
Portata fuori dalla vasca dai due nuovi ostetrici del turno successivo, messa in tutte le posizioni inimmaginabili per arrivare ad avere una bradicardia del feto, due episiotomie, un arresto cardiaco di Ismael, espulso con forza e rianimato, senza esito, per circa 15 minuti, fino all’arrivo del l’incubatrice dove è stato messo intubato e portato in terapia intensiva neonatale.
“Still born” appena nato, apgar 0 a 1/3 e 5 minuti.
Io, portata in sala operatoria per rimozione della placenta che non riusciva a staccarsi da sola.
All’uscita della sala operatoria, il pediatra mi attendeva per darmi la triste notizia.
Ismael aveva subito un gravissimo danno cerebrale, non sapeva se avrebbe potuto sopravvivere.
Il tunnel inizia li. Il buio. L’assurdo.
Entrare in ospedale per essere assistiti e trovarsi, per una negligenza, con un figlio in fin di vita.
Ismael non aveva speranze secondo i medici. Troppo grave.
Intubato, con saturazione al disotto delle minime per sopravvivere, reni in failure, liquido nei polmoni, e soprattutto EEG piatto.
Insomma, morto clinicamente, secondo loro.
Da lì comincia la saga della possibilità di spegnere le macchine che lo tengono in vita.
Ogni giorno il medico mi incontrava per ricordarmi quanto grave fosse, che non avrebbe potuto sopravvivere e che, nel caso ce l’avesse fatta, la sua vita sarebbe stata un inferno, e altrettanto la nostra come genitori.
Per me erano parole incomprensibili visto che parlava di mio figlio, secondo loro avrei dovuto uccidere mio figlio, già sfortunato al suo arrivo attraverso quel funesto evento.
Assurdo.
No, dissi, no. Mai.
E niente, così andò avanti per giorni, ogni due giorni tornavano a dirmi le stesse cose al punto tale che crearono in me dei sospetti, immaginavo che volessero prendere gli organi di Ismael.
Ma non mollavo, rimanevo il più a lungo possibile al suo capezzale in terapia intensiva, mettevo la musica che gli facevo sentire quando era in pancia, gli parlavo, pregavo e piangevo.
Nel frattempo avevo incaricato un avvocato, uno di quelli prestigiosi in cause contro gli errori sanitari.
Ma molte cartelle cliniche erano state modificate, cancellate cose, scritte in tempi posticipati alla nascita.
Legalmente non sono riuscita ad ottenere nulla, il barrister era un colluso per cui fece i propri interessi e non fece neanche decollare la causa per negligenza medica.
Ismael è ancora con me oggi, a 17 anni.
Ho impedito che venisse ucciso come loro volevano, per non averlo come peso sui conti dello stato.
Siamo usciti dall’ospedale quando Ismael aveva 6 mesi perchè non mi sono spostata finché non mi avessero assicurato tutto l’indispensabile per accudirlo in casa in modo appropriato.
Non ho mai mollato. Ho mosso ogni pedina possibile, tirato fuori gli artigli di madre.
Poi, all’età di due anni, ho deciso di rientrare in Italia, non sopportavo più l’ambiente medico inglese, troppo carente di senso umano.
Oggi Ismael ha due fratelli più piccoli che lo adorano, vive una vita fatta di ritmi suoi personali, ma serena.
È avvolto dall’amore, e nessuno vi crede ancora che sia possibile che sia ancora qui, visto il danno cerebrale che ha.
Per me non è mai stato un peso, la scelta di averlo fatto vivere è a totale carico di noi genitori.
Lo stato non dovrebbe mai immischiarsi in queste cose.
In Italia la sanità fornisce quasi tutto quello che serve per la sopravvivenza di Ismael, anche se spesso devo fare molte battaglie.
Ma ciò non toglie nulla alla gioia di averlo con noi.
Sono certa di aver fatto la scelta giusta, la vita vale sempre, e Ismael è un insegnamento profondo per tutti coloro che gli vivono accanto.
di: Daniela Monosi
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