In Bulgaria i fondi europei per l’affido sono una manna
per molte famiglie in cerca di soldi.
Così accogliere è diventato un business (permanente)
e pochi trovano una famiglia vera. Ma qualcuno ce la fa.
Kamelia ha otto anni, un fisico esile e lo sguardo schivo. Dopo qualche insistenza si mette a contare fino a cinque in italiano. È tutto quello che sa della nostra lingua. Ad aprile andrà a vivere a Cosenza con i suoi genitori adottivi: «So che c’è un ponte — dice perplessa — e poi voglio mangiare una pannocchia». È un nuovo inizio per una bambina che ha sofferto molto: il papà è morto anni fa, la mamma l’ha abbandonata e lei è stata a trovata a vagare da sola per le strade di Sofia, denutrita al punto da rischiare la morte. Una situazione di certo non eccezionale per la Bulgaria dove ogni anno 2mila bambini finiscono nelle case famiglia o vengono dati in affido.
Kamelia, però, è restia a lasciare il centro Liuben Karavelov nella capitale dove, per quattro anni, è cresciuta insieme ad altri 13 bambini, sette femmine e sei maschi, che, ormai, sono per lei come dei fratelli e delle sorelle. «È normale che sia preoccupata — spiega Magdalena Ivanova, 41 anni, la direttrice —, ogni giorno trova una nuova scusa per non andare: perché ha paura degli aeroplani, perché non sa l’italiano. La coppia che l’ha adottata è molto carina e sono sicura che le darà l’amore di cui ha bisogno».
Nonostante la grande quantità di bambini senza famiglia (si calcola che siano 13mila) le adozioni in Bulgaria diminuiscono anno dopo anno: nel 2016 quelle internazionali erano state 326, nel 2017 sono scese a 306, nel 2018 a 290. E, poi, si sono allungati i tempi. Se prima ci volevano tre anni per un bambino tra gli 0 e i 6 anni, oggi ce ne vogliono sei. Come mai? Dopo che la Bulgaria è entrata a far parte dell’Unione Europea, nel 2007, ha usufruito di diversi milioni di euro per chiudere i tanti orfanotrofi presenti nel Paese, una pesante eredità dell’epoca comunista, dove ai minori non veniva garantito uno standard di cure adeguato. Proprio nel 2007 aveva destato scalpore il documentario della Bbc «I bambini abbandonati in Bulgaria» in cui si mostrava la vita da incubo dei minori disabili nella struttura situata nel villaggio di Mogilino, non lontano dalla città di Ruse.
Oggi sono rimasti aperti solo 12 istituti, l’ultimo chiuderà nel 2025, nel 2010 erano circa 80. Un ottimo risultato che ha, però, creato un’altra grande stortura: i fondi europei, 136,5 milioni di leva solo per il periodo 2015-2020 (circa 70 milioni di euro), sono diventati un modo come un altro per combattere la disoccupazione, soprattutto nei piccoli villaggi dove i soldi che una famiglia riceve per tenere un bambino temporaneamente, circa 1100 leva al mese (550 euro), sono visti come una vera manna dal cielo. A Kneja, un paesino di 11mila abitanti a nord, l’89% delle persone in età lavorativa sbarca il lunario grazie all’affido. «È stato giusto togliere i bambini dagli Istituti — dice Krasimira Natan, avvocata appassionata, che lavora da 15 anni per l’associazione italiana Ai.Bi. (Amici dei bambini)—, infatti oggi il neonato entra subito in una famiglia affidataria. Il problema è che rischia di rimanerci tutta la vita perché questo è diventato un lavoro».
Al momento le foster families in Bulgaria sono 2198. Spesso vivono in villaggi a bassa densità di popolazione e con alto tasso di disoccupazione dove i bambini vengono scolarizzati per modo di dire. «Alcuni a 11-12 anni non sanno nemmeno leggere» spiega Krasimira. Per diventare genitori affidatari basta seguire un corso di 36 ore, avere due lettere di referenze, possedere una casa abbastanza grande e la fedina penale pulita. Non è previsto un limite d’età per chi accoglie. «La legge prevede sei mesi di tempo per decidere se il piccolo può tornare nella famiglia d’origine o se deve essere adottato — dice Maya Pangelova, un’altra avvocata che lavora per l’associazione Amor — ma poi basta un’ordinanza del ministero degli Affari Sociali per far slittare la decisione di 18 mesi. E di 18 mesi in 18 mesi il bambino diventa un ragazzo, si affeziona alla famiglia affidataria e non vuole più essere adottato».
La direttrice del centro per bambini di Sofia, Magdalena Ivanova, parla di un vero e proprio business: «Ci sono molte comunità rom fuori Sofia che pensano che questo sia un lavoro. Non va bene. Alcune volte le famiglie affidatarie cercano di convincere i ragazzi a rimanere con loro mentre deve essere chiaro che è una misura temporanea». Se i tempi si allungano a dismisura l’adozione diventa tutta in salita: «L’anno scorso — aggiunge Krasimira – siamo riusciti a portare a termine l’adozione di una ragazzina di 16 anni che era stata abbandonata alla nascita. Sedici anni ci sono voluti! In un villaggio una donna di 72 anni ha tenuto una bambina dai sei mesi ai nove anni finché non riusciva più a starle dietro e finalmente è stata adottata». Sotto accusa ci sono anche gli assistenti sociali: «Spesso non sono motivati, hanno stipendi bassi e temono di perdere il lavoro» spiega Nelly Gancheva della Brutia Onlus mentre mostra una foto di una bambina con paralisi cerebrale che ora è negli Usa e balla.
Ismail ha 15 anni, parla poco ma ha le idee molto chiare: «Voglio essere adottato, non mi importa in quale Paese, l’importante è che mi amino, e voglio diventare un dottore». Ivanka e Liubomir Zheliazkov, 63 e 61 anni, lo guardano e annuiscono speranzosi. Lui è un veterinario e lei lavora in una scuola, hanno deciso di fare l’affido quando i loro due figli sono cresciuti «perché la casa era vuota e tutti devono avere un cuore». Vivono a Novachene, una manciata di case basse e tutte uguali vicino al confine con la Romania, in una villetta dai colori insolitamente sgargianti: «Tutti ci chiedono perché l’abbiamo dipinta così» dice ridendo Liubomir.
Un anno fa è arrivato anche Martin, 14 anni, che sprizza intelligenza e un cinismo disincantato. Lui è in affido da quando aveva 4 anni e la sua ultima foster family è stata cancellata dagli elenchi per un problema nella qualità della cura: «Non mi hanno nemmeno spiegato perché» dice amareggiato. Se gli chiedi cosa vuole fare da grande risponde provocatoriamente: «Non lo so, tanto nessuno mi darà un buon lavoro e poi cos’è un buon lavoro». Martin ha problemi a scuola, lo hanno inserito negli elenchi degli studenti con disabilità e quindi non prenderà un diploma vero e proprio ma solo un attestato di frequenza. Ci fa capire che non crede all’adozione, anche se ripete ossessivamente di volere dei genitori turchi. «La vera famiglia è quella biologica» dice quasi in segno di sfida.
Sarà difficile che Ismail e Martin trovino una famiglia, se studiano potranno rimanere con gli Zheliazkov fino a 20 anni, poi dovranno arrangiarsi. Sempre che lo Stato trovi i soldi perché l’anno prossimo finiranno gli stanziamenti europei con cui è stato finanziato il sistema dell’affido e dei centri per bambini. Il governo, tuttavia, assicura che non ci saranno cambiamenti: «Lo Stato si prende cura della qualità del servizio — dice Emil Todorov direttore del dipartimento per la protezione del bambino — e in questi anni ne abbiamo creato uno di alta qualità di cui si faranno carico i singoli comuni». Lo sperano gli operatori del settore come Nena Topchiyska che dirige un centro a Lesichovo, 80 chilometri a sudest di Sofia: «Paradossalmente vorrei che la struttura chiudesse perché vorrebbe dire che non ci sono più bambini da aiutare ma purtroppo non sarà così».
In casa c’è solo Nadia, 12 anni, che non è andata a scuola perché aveva mal di denti. Capelli neri e lunghi adornati da un cerchietto, viso solare e sbarazzino, la bambina, dopo un’iniziale timidezza, ci mostra le stanze arredate in modo spartano ma piene di colori dove vive con altri 10 minori tra i quattro e i 17 anni. Per terra all’ingresso delle grandi buste piene di vestiti regalati da alcuni benefattori. «Vorrei fare la parrucchiera» confessa e chiede alla direttrice di mostrarle sulla grande cartina geografica che è appesa al muro dov’è l’Italia.
Qualche volta, per fortuna, le adozioni vanno in porto subito. Lo sa bene Maria Boykova, 52 anni, che è al terzo affido in tre anni. Ora ha una bambina di cinque mesi, Annamaria, che è arrivata quando aveva solo 14 giorni. Maria sa che tra qualche mese la dovrà lasciare, tuttavia è contenta per lei: «Rimane il lettino vuoto — racconta —. Devi prendere tutta la loro roba e metterla nelle scatole. Poi non è detto che riesci a tenere i contatti. La famiglia adottiva del primo bambino non ha voluto e non so più nulla di lui: se ha messo un dentino, se ha cominciato a camminare. Con il secondo è andata diversamente». Mentre intratteniamo la piccola, il nostro sguardo si posa sul frigorifero dove ci sono le foto dei tre neonati. Maria ce le mostra e scoppia a piangere: «So che per alcuni questo è un lavoro ma per me è una missione. Questi bambini saranno sempre nel mio cuore».
Tra qualche settimana Kamelia volerà in Italia con i suoi genitori. È lo stesso viaggio che hanno compiuto nel 2016 Nicola, che oggi ha 13 anni, e Antonio che ad aprile ne compirà 11. Oggi vivono a Maiori, in provincia di Salerno, insieme a mamma Maria e papà Pasquale. «Loro ci hanno sempre riconosciuto come genitori — racconta il signor Vulay che ci riceve nel suo bel negozio di artigianato sul lungomare —. Mi dicono “papà grazie di esistere e di averci accolto, qui è così bello e siamo così contenti”. Io se potessi ne adotterei altri cento». Ormai Nicola e Antonio si sentono così italiani da aver dimenticato completamente il bulgaro, del loro passato non hanno ricordi tangibili, solo qualche foto scattata durante la prima visita dei genitori. «Quando siamo andati a prenderli abbiamo portato una valigia vuota — racconta Maria, 51 anni — ma non l’abbiamo potuta riempire perché non avevano nulla. Neanche i giocattoli che gli avevamo regalato sei mesi prima».
La stanza dei ragazzi è piena di pelouche, loro ci mostrano il tigrotto che gli hanno comprato mamma e papà in Bulgaria: «È stato quello il momento più difficile — racconta Maria — perché per cinque giorni sei in un Paese sconosciuto con dei bambini che non parlano la tua lingua. Una volta arrivati in Italia tutto è filato liscio». Antonio e Nicola non avevano mai visto il mare: «Siamo arrivati la sera alle undici — racconta Pasquale — e la mattina li abbiamo portati subito in spiaggia. Loro hanno cominciato a correre e a tirare pietre in acqua. Erano felici. E lo sono ancora».
di: Monica Ricci Sargentini, giornalista Corriere della Sera
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