Pubblichiamo l’intervento del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Alfredo Mantovano al convegno “Suicidio dell’Occidente“, svolto presso il Chiostro del Convento di Santa Maria sopra Minerva presso il Senato della Repubblica.
31 gennaio 2024 – Roma
‘Suicidio’ è parola più efficace di ‘tramonto’ per qualificare la volontarietà dell’autolesionismo di una civiltà. Lo sottolinea Luciano Violante, in un suo recente intervento[1]: oggi “la morte si presenta come ragionevole alternativa alla vita, anche fuori dei casi di gravi intollerabili patologie”; Violante ricorda una ricerca del maggio 2023, secondo cui in Canada, parte qualificata dell’Occidente, il 28% dei cittadini consentirebbero a una richiesta di suicidio assistito se proveniente da una persona senza dimora, e il 27% se l’unico motivo di afflizione fosse la povertà, senza alcuna malattia in corso.
In Olanda si è passati dalle 2000 eutanasie praticate nel 2002 alle 10.000 di oggi, anche sui bambini. In Italia, come confermano le cronache delle ultime settimane, esistono le basi culturali, giuridiche e politiche per percorrere la strada della morte a richiesta: il dibattito è concentrato non già su come affiancare e aiutare il disagio del paziente o dell’anziano (ciò a cui inizia a provvedere la recente legge sugli anziani), ma su come garantirgli di porre fine alla propria esistenza. La morte viene prospettata quale soluzione obbligata per uscire dalla solitudine collettiva nella quale siamo immersi.
Qui apro una parentesi, per avvicinarmi al tema del nostro incontro. L’Occidente è stato descritto come la sintesi fra la filosofia greca, che ruota attorno all’uomo, il diritto romano, centrato sulla realtà dell’essere, e il personalismo cristiano; la prima conseguenza di questa sintesi è la considerazione della persona come unica e irripetibile: è uno dei pilastri della cultura occidentale.
È stata la civiltà occidentale ad aver superato la visione dell’uomo, propria di tanti imperi pre cristiani, quale parte di un meccanismo, da scartare se è inidoneo a contribuire al successo di una collettività. Ma questa visione è stata nuovamente ribaltata con l’irruzione del darwinismo nelle scienze sociali, e col conseguente ingresso di una scienza biologica, che è diventata dottrina politica, e che ha teso a cambiare radicalmente la condizione umana in una prospettiva di selezione artificiale dei più adatti al progresso della società.
L’eugenetica sociale fondata sull’evoluzionismo ritiene che per garantire il progresso autentico è necessario prevenire la riproduzione dei soggetti inadatti, degli unfit. Tra la fine del XIX sec. e l’inizio del XX l’ideologia eugenetica si è sviluppata parallelamente in Germania e in area anglosassone. Non è rimasta allo stadio teorico: nel 1927 negli USA ebbe notevole rilievo la sentenza della Corte Suprema – i giudici sono da sempre centrali in queste vicende – che ritenne rientrante nei poteri di polizia dello Stato (nella specie la South Virginia) la sterilizzazione forzata di una giovane donna, Carrie Buck, della quale era stata accertata una maturità inferiore a quella effettiva. Per la cronaca la bimba avuta da Carrie prima della sterilizzazione, Vivian, frequentò poi brillantemente la scuola. Quando si parla di eugenetica imposta per legge o per sentenza si pensa alla Germania nazionalsocialista: ma fino alla fine degli anni 1930 negli USA sono state compiute legalmente circa 20.000 sterilizzazioni forzose.
Non è stato necessario attendere l’avvento del nazismo per assistere al diffondersi di correnti ideologiche eugenetiche. Altri Stati europei, come la Svezia nel 1934, introdussero leggi di sterilizzazione dei malati di mente e delle persone mentalmente disturbate.
I frutti più coerenti della politica biologica di derivazione darwinistica furono però l’eutanasia e il sostegno attivo al suicidio. Le tappe di questa espansione ideologica e delle sue ricadute normative sono bn descritte nel volume Il “diritto” di essere uccisi: verso la morte del diritto?, edito da Giappichelli, curato dal prof. Mauro Ronco e dal Centro studi Livatino[2]. Il libro è interessante perché consente di cogliere radici non recenti, che elaborano già dalla seconda metà del XIX secolo categorie quali quelle delle vite senza valore, delle vite non degne di essere vissute.
Nei due decenni successivi negli USA il tema dell’eutanasia si concentra non tanto sul dolore insopportabile o sull’autodeterminazione del paziente, ma sul valore della vita di soggetti deboli mentalmente o malformati: costoro sono visti come una minaccia dalla quale la società deve difendersi.
Lo sterminio nazionalsocialista di tanti disabili ha fortemente rallentato la strada verso l’eutanasia intrapresa nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale all’interno di non poche democrazie occidentali, a cominciare dagli USA, e ha provocato il passaggio da una motivazione eugenetica di derivazione darwinista alla rivendicazione del diritto a morire come diritto di libertà. Non si parla più di mercy killing, bensì di living will, che verrà introdotto in quasi tutti i Paesi occidentali.
La prima legge eutanasica negli USA è quella dello Stato dell’Oregon, a seguito di un referendum favorevole tenuto nel 1994, che permetteva ai medici di uccidere con droghe letali i pazienti che manifestavano intenti suicidiari. Nello stesso periodo leggi eutanasiche sono state introdotte in Belgio, in Olanda e in Lussemburgo: è storia dei nostri giorni, fino al famigerato protocollo di Groningen, una serie di criteri per autorizzare a uccidere i neonati gravemente menomati, concordato dall’Università con la locale Procura, e varato nel 2005 quali linee-guida dall’Associazione olandese per le cure pediatriche[3].
Sulla scena della tragedia entrano allora due ulteriori protagonisti: i genitori di Indi. Ho avuto la fortuna di conoscerli personalmente, ricevendoli a Palazzo Chigi poco prima di Natale insieme con le altre due bambine: sono persone semplici, non medici né giuristi. Quello che hanno fatto per la loro ultima figlia è stato non rassegnarsi a una decisione di morte di cui all’evidenza non coglievano alcuna ragione.
Si sono scontrati col ceto sanitario e con i giudici: i quali – come già accaduto per casi analoghi, da Charlie Gard ad Alfie Evans – hanno respinto le loro istanze. Lo hanno fatto i giudici inglesi, e poi la Corte europea per i diritti dell’uomo, adita anch’essa.
Anche qui, come per i medici, non accade per caso. Ho ricordato prima come negli USA, e in più d’una nazione Europa, la legittimazione della deriva eutanasica è avvenuta per sentenza, poi per protocolli, quasi mai passando per le scelte dei Parlamenti. In tutto l’Occidente il superamento della norma di legge da parte del giudice è diventata prassi consueta. L’“invenzione del diritto”, per riprendere il titolo del libro di un ex presidente della Corte costituzionale italiana, è ormai una categoria ideologica e una forma di controllo delle scelte della politica.
Vi è un’ulteriore domanda: medici e giudici negano le cure nell’ospedale dove la bambina era ricoverata; ma perché impedire che lei fosse curata altrove? L’alternativa era stata prospettata in concreto da due altri attori intervenuti sulla scena: il governo italiano che – come già accaduto nel 2018 per Alfie Evans – ha riconosciuto la cittadinanza italiana a Indi per permettere alla nostra rappresentanza consolare in UK di interloquire con medici e giudici inglesi, e l’ospedale Bambin Gesù che, esaminati i dati clinici della piccola, si è reso disponibile ad accoglierla.
In tutte le tragedie vi è un coro. In UK all’inizio esso è mancato: i media britannici hanno quasi del tutto ignorato il caso, quelli italiani ne hanno parlato a seguito dei passi operati dal governo. Per paradosso una vicenda consumata in Inghilterra ha avuto un rimbalzo mediatico in Italia, e ha fatto aprire un dibattito oltre Manica; un gruppo di medici operanti in UK ha chiesto a che serve una ricerca scientifica avanzata – e sappiamo tutti che lì è fra le più avanzate al mondo -, se poi i suoi esiti non sono calati proprio per affrontare i casi più difficili e sfidanti. E ha aggiunto che, pur se le terapie per la grave malattia che affliggeva Indi non erano ancora disponibili, comunque vi erano delle proposte sperimentali, e quindi il suo mantenimento in vita avrebbe permesso di guadagnare tempo, e di incentivare studi mirati di ricerca.
Che si apra una crepa in un muro ideologico che appariva intangibile è un passo che è stato reso possibile dall’amore di un padre e di una madre per la propria figlia, e dalla scelta politica di un governo nazionale orientato alla vita: segno che ci sono vari modi per non condividere la deriva suicidiaria dell’Occidente.
Vorrei essere chiaro, al limite della rozzezza. La sfida da raccogliere è quella di non demordere nonostante l’irrilevanza di quel che rimane del popolo cattolico italiano, e comunque di un popolo antropologicamente ben orientato; nonostante la difficoltà che esso ha di trovare guide al suo interno; nonostante il drastico abbassamento del suo profilo. Sono trascorsi 20 anni dall’approvazione della legge n. 40/2004, che ha posto ragionevoli argini alla fecondazione artificiale: quella legge è stata poi stravolta dalla giurisprudenza, ma il suo varo aveva mostrato la capacità di quel popolo, e di chi lo rappresentava, di giocare in attacco, e di non limitarsi a una pur importante opera di interdizione di proposte ostili.
Che cosa è accaduto in vent’anni a quel popolo, che era anche riuscito nel 2005 a vincere il referendum abrogativo, per ridursi a frangia marginale, nemmeno riconoscibile? Certo, gli spunti disorientanti si moltiplicano, e non risparmiano il recinto ecclesiale. Non compete a me parlare di recenti documenti che hanno generato lo sconcerto di intere conferenze episcopali, in primis quelle africane, le più esposte al martirio e alla testimonianza.
Pongo solo un quesito, limitandomi al dibattito italiano sull’eutanasia: ma possibile che con tanti organismi, accademie e atenei di area ecclesiale, cui sono demandate l’elaborazione culturale e la riflessione anche giuridica, questo mondo non è riuscito a dire nulla sulla vicenda di Indi? possibile che sull’argomento l’ultima frontiera su cui attestarsi – la sola proposta che viene avanzata – sembra essere la trasposizione in legge della sentenza della Corte costituzionale del 2019? possibile che questo mondo non sottoponga, come è doveroso, il percorso argomentativo di quella sentenza a necessario vaglio critico, per cogliere le anomalie che non pochi commentatori hanno rilevato? e per cercare strade diverse rispetto a questa rincorsa senza fine verso l’eutanasia fra pronunce giurisprudenziali e leggi dello Stato?
I genitori di Indi non hanno atteso che qualcuno ricordasse loro il magistero ecclesiale sulla vita per difendere con tutta la loro forza la loro piccola. Il loro sacrificio ha portato alla loro conversione, tanto che hanno chiesto e ricevuto il battesimo. L’Occidente nasce dalla conversione dei popoli e dal loro battesimo. La nostra storia e la nostra fede si fondano sul sacrificio di un bambino: qualche settimana fa, facendo il presepe, lo abbiamo ricordato. Giorgia Meloni e il governo italiano non hanno ricevuto sollecitazioni da nessuno per dar loro una mano; siamo pronti a darla, per quello che si può, a chiunque lavori per la vita, purché avvenga con intelligenza, senza ridursi a slogan o a provocazioni. Poco, non basta, ma dice qualcosa: che non condividiamo la prospettiva del suicidio.
Il torpore che assale il re è il simbolo dell’accidia di chi è dalla parte giusta, ma resta fermo. Il nostro mondo è popolato da persone ‘buone’ che dormono, dai non pochi Theoden, privi – talora per propria volontà – delle forze necessarie per combattere il male: su di essi paiono prevalere gli epigoni di Saruman e di Vermilinguo, che operano a tutti i livelli, in politica, nel mondo del diritto e in quello della medicina.
Qualche settimana fa la parte di Galdalf l’ha assunta una bimba di sette mesi: quella sua piccola mano protesa verso chi le stava intorno ha fatto uscire tanti dal torpore e ha convinto che l’alternativa al suicidio esiste, ed è un’azione responsabile e di sacrificio. Il nostro sacrificio, non soltanto quello di Indi e dei suoi genitori.
Perché questo è giusto fare. E questo, con l’aiuto di Dio, faremo.
[1] Luciano Violante, La cultura di morte nel nostro tempo in Studi cattolici, 2023/ pp. 775 ss.
[2] Il volume per un verso completa e rende organico un lavoro avviato da tempo sul tema dal Centri Studi Livatino con numerosi workshop e con l’atto di intervento nel giudizio costituzionale nel quale è stata emessa l’ordinanza n. 207; per altro verso non si accontenta della mera lettura, se pur accompagnata dal richiamo ermeneutico delle Corti nazionali e delle Corti europee, delle norme interessate, e della verifica della loro adeguatezza rispetto a pretese innovazioni sanitarie. Va oltre, nella ricerca delle radici ideologiche della disponibilità della vita umana e della c.d. autodeterminazione. Ricostruisce così il filo ideologico e in senso lato culturale che lega il darwinismo ottocentesco, l’eugenismo del XX secolo, alla base di regimi e prassi totalitari, e l’attuale collocazione dei confini alla vita alla stregua di una pretesa “qualità” della vita stessa.
[3] Il protocollo individua 3 scenari: 1) neonati senza prospettiva di sopravvivenza, per essi la regola è l’astensione da cure mediche futili; 2) neonati con necessità di cure intensive per sopravvivere , con previsione di qualità della vita modesta; 3) neonati la cui sopravvivenza non necessita di cure intensive ma che agli occhi dei genitori e del team medico paiono soffrire in modo intenso (es. i neonati che soffrono per la spina bifida, pur in presenza di interventi chirurgici che possono dare vantaggi significativi). Per il Protocollo di Groningen anche i neonati della 2^ e della 3^ categoria sono da sopprimere se genitori e medici concordano sulla prognosi della scarsa qualità della vita, e quindi della morte come scelta migliore della prosecuzione della vita. Le critiche al Protocollo sono state tante: come si fa a ipotizzare la futura qualità della vita per un neonato? come rendere un giudizio così impegnativo sul valore di una vita ancora tutta da vivere? come negare l’esperienza di tanti disabili che attribuiscono alla propria vita un valore pari a quello degli altri esseri viventi? qual è il parametro della sofferenza insopportabile per un neonato? la si misura all’esperienza, del tutto diversa, dell’adulto? o alla percezione che ne ha l’adulto, in assenza di criteri scientifici di validazione?
Il Protocollo di Groningen ha trovato applicazione per circa 10 anni, in assenza di una base normativa di riferimento. E’ stato superato dal New regulation of late-term abortions and Terminations of lives of neonates del dicembre 2015, presentato dal Ministro della Giustizia e dal Ministro della sanità. Ci sono due deroghe alla legge sull’aborto, che permettono di sopprimere il nascituro oltre i termini previsti, e una deroga al divieto di interruzione della vita di un neonato, in linea col Protocollo di Groningen. Riepilogando. La disciplina relativa alla soppressione degli infanti fino a un anno di età è stata dapprima introdotta con un accordo fra un centro universitario medico e una procura locale; dopo un decennio è stata generalizzata con un regolamento interministeriale. Il Parlamento non ha mai trattato la materia. Il tutto è stato calato dall’alto senza rispettare le regole di formazione delle norme.
[4] Jerome Lejeune ricorda come “da secoli la medicina si e’ sempre battuta in difesa della vita e della salute, contro le malattie e contro la morte. Se cambiamo questi obbiettivi, cambiamo la medicina. Il nostro dovere non e’ quello di infliggere la condanna ma di commutare la pena”.
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