Usare i social per dare annunci drammatici per il Paese. Questo sembra essere il nuovo modo di comunicare della politica italiana. Ultimo di questi annunci è stato quello del Ministro Speranza che ha annunciato una decisione che rompe l’ultimo tabù sull’aborto legale in Italia: la somministrazione in day hospital del “pesticida umano” (così la chiamava il prof. Lejeune) anziché in regime di ricovero. L’aborto e il suo dramma tornano a svolgersi a casa. La donna torna ad abortire da sola. La politica, dopo quaranta anni di retorica che voleva far passare la legge 194 come una norma che, attraverso l’aborto legale praticato e controllato dallo Stato, avrebbe attuato la “tutela sociale della maternità” svela il vero volto di ciò che l’aborto è: la solitudine di una donna che, lasciata a sé stessa, rinuncia ad accogliere il figlio che sta crescendo in lei.
Il Ministro Speranza e i tanti commentatori hanno parlato di un progresso per i diritti della donna ma, ci domandiamo, quale diritto ottiene, in realtà? L’aborto “casalingo” con la pillola RU486 riduce i rischi per la donna? Riduce il dolore che patirà? Riduce la sensazione di solitudine in cui affronterà l’evento? Facilita la “rimozione delle cause” che inducono la donna a chiedere allo Stato di aiutarla ad eliminare il figlio? La risposta a tutte queste domande è NO. L’unico a “guadagnare” qualcosa da un aborto chimico in day hospital sono le finanze del Sistema Sanitario Nazionale che vede ridotte le proprie spese evitando il ricovero fino ad aborto completato o l’uso della sala operatoria.
Per la donna, invece, ci saranno tre o più accessi ospedalieri per la somministrazione delle varie pillole e per l’ecografia di controllo (oltre ad eventuale ricovero per raschiamento in una non piccolissima percentuale di aborto incompleto). Ci sarà, come raccontano numerose testimonianze, una pressione a prendere velocemente la decisione per evitare lo scadere dei termini senza, come quasi sempre accade per l’aborto, nessun tentativo di approfondirne le motivazioni che la portano ad una così tragica decisione. Ci saranno contrazioni spesso molto più dolorose di quanto frettolosamente le è stato spiegato, perdite abbondanti e prolungate e talvolta la vista della camera embrionale espulsa che lei stessa dovrà eliminare.
Ci domandiamo dove sia il progresso civile in tutto questo.
Dalla retorica dell’emersione del dramma dell’aborto dalla clandestinità alla sua gestione pubblica che lo avrebbe reso accettabile solo nella misura in cui si sottoponeva alla gestione statale, siamo arrivati al chiaro enunciato che è l’autodeterminazione della donna ad essere l’unico valore in gioco. Le stesse parole d’ordine usate per far cadere i tabù del suicidio assistito e dell’eutanasia su richiesta: l’individuo viene caricato della responsabilità di decidere della vita e della morte e, di conseguenza, è tutta sua anche la responsabilità di voler proseguire a vivere (o di far nascere un figlio) anziché scegliere la via più semplicistica e drammatica del togliere la vita (a sé stessi o al proprio figlio) con l’aiuto dello Stato per “risolvere” le situazioni complesse che quelle vite pongono alla società che, così, può evitare di farsene carico.
Steadfast si occupa da sempre di Diritti Umani e ci pare che la somministrazione ambulatoriale della RU486 non solo non costituisca un miglioramento dei diritti delle donne ma ne costituisca una drammatica involuzione che le carica del dolore e della responsabilità di dare in prima persona la morte al proprio figlio nella solitudine della propria casa. Chiediamo che una vera “tutela sociale della maternità” riporti il diritto alla vita del figlio e il diritto della donna ad accoglierlo insieme al padre, al centro di una società che veda nella ripresa della natalità la speranza per un futuro più umano per il nostro Paese.
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